Il Museo del ’900 di Firenze espone l’amore per l’Italia di Henry Moore

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Appurato che il giallo, insieme al grigio, è il colore del 2021, basta davvero un accenno alla tinteggiatura paglierina per riprendere a respirare? Almeno nel mondo dell’arte si direbbe di sì e pur escludendo il turismo – nota bene, le mostre si fanno più per i forestieri che per i locali – la Toscana gialla di questa settimana è pronta al nuovo via, alla nuova stagione espositiva. Sperando che a qualche genio non venga in mente di stoppare tutto un’altra volta, che togliere ai cittadini musei, teatri, cinema, scuole significa azzerare la cultura: un danno enorme, sociale ed economico.

Intanto Henry Moore al Museo del ‘900 Firenze ci fa gioire e non solo per il forte significato simbolico di voler essere presenti a tutti i costi e anzi farsi promotori insistenti del diritto dei musei di riaprire le porte al pubblico. Quando si pensa al grande scultore inglese e al suo amore per l’Italia i più avanti con l’età ricorderanno la spettacolare mostra al Forte del Belvedere nel 1972 che lo stesso Moore aveva definito la più bella della sua carriera.

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A quel tempo, quasi mezzo secolo fa, mostre internazionali se ne facevano poche e con un taglio diverso rispetto al presente in cui si rincorre soltanto l’ultima tendenza. Letto e interpretato all’epoca da Giovanni Carandente, tra i massimi esperti della scultura moderna, venne fuori un Moore stratosferico, classico e innovatore, perfettamente in equilibrio tra il passato e il presente, che poi è sempre la ricetta migliore per l’arte: non essere troppo di moda per non passare mai di moda.

L’impresa del Museo del ‘900 e del suo coriaceo direttore Sergio Risaliti – tra i più insistenti e convinti nel dire che i musei vanno assolutamente riaperti senza se e senza ma – sta nel restituire centralità a una figura chiave del secolo passato attraverso il disegno, che per uno scultore rappresenta la fase iniziale e progettuale del mettersi all’opera. Si intitola appunto “Il disegno dello scultore” questa mostra da visitare per tanti motivi studiando come fare tra le trincee poste sui confini regionali a colori cangianti, soprattutto per non perdere l’affezione verso l’arte, al fine di ristudiare con attenzione il rapporto di Moore con la pittura e la scultura italiana.

Nato nello Yorkshire nel 1898, Moore compì il primo viaggio a Firenze addirittura nel 1925 ed ebbe un impatto folgorante di fronte a Giotto, Masaccio, Donatello, Michelangelo. Proprio dalle memorie dell’antico scatta in Moore l’interesse e il confronto con il Novecento a lui coevo, Brancusi e Picasso in particolare. Il percorso è suddiviso in temi e soggetti, affrontati in diversi periodi della carriera: il paesaggio, le ossa, le rocce, le mani, gli alberi, gli animali. Insieme alla vasta produzione grafica, l’importante “Teschio di elefante” prodotto nel 1968 da cui origina una serie di acqueforti e i disegni per gli arazzi che testimoniano l’ultimo periodo di attività negli anni ’80, prima della morte avvenuta nel 1986.

C’è tanta Toscana, non solo Firenze, nella poetica dell’artista britannico. C’è la Versilia, soprattutto, dove Moore si recò più volte per lavorare con marmisti e scalpellini locali, entrando in contatto con il fervido ambiente culturale, tra collezionisti e mecenati. Moore giunse per la prima volta a Forte dei Marmi nel 1957 per produrre una grande scultura commissionata dall’Unesco di Parigi.

Occasione che gli fece tralasciare il bronzo, suo materiale di elezione, sostituito dal marmo estratto nella cava Michelangelo sul monte Altissimo. Versilia seconda patria per Moore, la moglie Irina e la figlia Mary, che dal 1965 vi trascorrono l’estate, in compagnia di intellettuali come Eugenio Montale. Henry Moore in Toscana è il capitolo successivo che integra la prima parte della mostra, necessaria oggi come il pane a proposito di beni primari.

Un appuntamento che durerà fino al 18 luglio, se tutto andrà come deve.

Fonte: www.linkiesta.it